Il restauro del polittico cinquecentesco di Maro Castello suscita, nel 1982, prevedibili reazioni da parte di un paese vicino e rivale, che in una circostanza analoga ha rifiutato senza mezzi termini il finanziamento statale. A maggior ragione, i fabbricieri della chiesa di Maro Castello vogliono festeggiare l’evento in grande: anche perché quelli del paese rivale hanno insinuato, in un primo tempo, che il dipinto sia stato sostituito con una copia (e gli si è detto di no, con argomenti e dati suggeriti da noi). Ma non hanno mancato di rilevare malignamente come, dopo il restauro, sia “rimasto troppo lucido”.
Il pranzo offerto dai fabbricieri è luculliano, e noi tre della Soprintendenza – il restauratore Gianni, l’autista Attilio ed io – cominciamo, dopo un paio d’ore, a non poterne più. All’ennesima proposta di un brindisi, mi schermisco mettendo una mano sopra il bicchiere: il fabbriciere anziano versa comunque il vino rosso, intercettando insieme la mia mano, il bicchiere e la tovaglia. Mi guardo attorno spaesato: il parroco, noto cacciatore di cinghiali, mi fa segno con la testa di non reagire. Il fabbriciere mi fissa e si limita a spiccare poche parole: “È un gesto che non vorrei rivedere”.
All’uscita, stentiamo a stare sulle gambe. E così doveva andare, perché quelli dell’altro paese – mi si dice – ci stanno guardando dall’alto col binocolo, e adesso sì, crepano d’invidia.