Sono venuto a stare qui
non ho messo ancora a posto
certa roba, certi libri
sono tutte cose mezze mie.

Io tendo trappole in libertà
e mi segno bene i posti
se dovessi, se dovessi
perdere la mappa – cazzi miei.

A-a dué
A-a dué

Se le radici uno le ha
può sentirsi più tranquillo,
“Questa terra è la mia terra”, dice,
però in fondo sempre terra è.

Se la memoria è libertà
io mi tengo la memoria
e pesco indietro e corro avanti
le facciate sono tutte mie.

A-a dué
A-a dué

Ti sei vestita, sei andata via
l’ho capito dalla porta
Son rimasto fermo e zitto
con in testa quel dannato “clac”.

Concentrazione, mobilità
sono qui coi miei pensieri
e ho la testa che mi gira
chissà quando mi addormenterò

A-a dué
A-a dué…


Devo a Massimo Berri l’idea del titolo, un vero ossimoro, come direbbe un retore. Il pezzo è stato composto diversi anni fa nella casa di Vico Santa Maria degli Angeli: una casa di 60 mq con un terrazzo di 80, dove trovavano posto certi arredi fumettistici di Stefano Piccardo. Un paravento con figure di pellirosse schermava il lavandino della cucina-corridoio, mentre sulla porta d’ingresso un pannello dipinto – nella concezione originale, una mantovana per tende –  recava le mie presunte immagini-simbolo.
Il pezzo si dovrebbe collocare tra 1990 e 1991: è dunque uno fra i più datati di questo album, e – aggiungerei – uno di quelli più genialmente trasfigurati dall’arrangiamento di Fede e Maspi.
La situazione sentimentale, instabile e non del tutto chiara (con lei che a un certo punto scivola via senza proferir verbo), si ambienta nel set di un recente trasloco.
Ho trasformato il leggero clic della porta in un più robusto clac dietro suggerimento di Piero Boccardo.
La contrapposizione tra memoria e radici  deriva dalla lettura di un giornale (un pezzo di Luigi Pintor sul “manifesto”?, non ne sono sicuro).
Nell’immagine della mappa, ben più che in quella delle trappole, è adombrata una stagione di viaggi tendenzialmente avventurosi.
Quelli sì.