Macadàn o macadàm?
In un corretto italiano sarebbe giusto il secondo lemma, macadàm. Vedi anche Paolo Conte in Sparring partner (Stava lì nel suo sorriso /a guardar passare i tram, /vecchia pista da elefanti /stesa sopra al macadàm); o Paolo Teobaldi, che titola così il suo romanzo, col soprannome del protagonista (il cantoniere Selvino Gengoni).
Si tratterebbe, in buona sostanza, di un tipo di pavimentazione stradale – una massicciata drenante di pietrisco e sabbia spianata da diversi passaggi di un rullo compressore –, dal nome dell’ingegnere scozzese John Loudon McAdam (1756-1836) che per primo lo collaudò, e a proprie spese, nel 1798.
Ma per un genovese (e al limite, per un savonese) macadàn è, con una vera e propria metonimìa (o metonìmia?), la macchina a vapore utilizzata per comprimere la massicciata: lo schiacciasassi, o sciacca-prìe. A me, treenne, dicevano “macchina schiaccia-pietre” (che io corrompevo in un più comodo accacca-pepe). C’era una di quelle macchine, a Pegli nel 1956: andava su e giù per un percorso di cantiere tra vecchi orti, la futura via Laviosa. Il conducente aveva finito per notarmi, impalato e adorante, e un bel giorno aveva detto a mia madre: “Me lo dia su”, e mi aveva fatto fare un giro.
(Che dire? Una di quelle quattro, cinque immense emozioni di una vita.)
Quattro anni fa, in una rimessa comunale di Molassana dove mi ero recato per tutt’altro motivo, ho rivisto – vera e propria apparizione – il macadàn. L’ho riconosciuto, toccato, annusato, documentato fotograficamente, e ho continuato a dire “Era proprio quello!” a tanti colleghi distratti, finché un collega preparato, Guido Rosato, ma ne ha dato assoluta conferma. Negli anni cinquanta del secolo scorso erano ancora in attività due esemplari identici, prodotti dalla genovese “Ansaldo s.a.” consociata con l’inglese Richard Garret & Sons”, che il Comune di Genova aveva acquistati nel 1927.
Quello parcheggiato a Molassana è conservato al coperto, l’altro (a Borzoli), no. “La loro vetustà”, osserva opportunamente Guido nel testo di un Quaderno di archeologia industriale (il n. 8 di una pionieristica serie) che rischia di non vedere mai la luce,“prescrive certamente una migliore collocazione”.
Alcune immagini sono ricavate dall’impaginato del Quaderno che Guido Rosato mi ha voluto generosamente passare.