Di norma, la domenica, uscivo con mio nonno.
Ogni volta mi dicevano: “Sta’ bravo”.
Esortazione inutile, noi due ci capivamo,
eravamo una coppia collaudata.
Appena fuori, lui, con tono impersonale,
faceva la domanda di rito:
“Dov’è che vuoi andare ?“ E io, guardando avanti,
dicevo: “A vedere gli animali”.
Di quel museo di storia naturale
doveva averne piene le palle.
Ma forse gli piacevo così determinato,
o forse mi voleva solo bene.
Metteva sicurezza, ogni volta tornare
e ogni volta ritrovare quelle bestie
che non erano vive, eppure erano vere
e soprattutto si lasciavano guardare.
Amavo i grandi erbivori con quelle cuciture
e le narici enormi, smaltate.
L’okapi era simpatico, i lama dispiacevano
per quella fisiognomica da sputo trattenuto.
E ogni volta aspettavo il momento
della resa dei conti con l’orango.
Ogni volta pensavo: mi fa meno paura,
e invece un po’ paura mi faceva, sempre.
Lo tengo ancora d’occhio, lui e gli altri:
continuo, ogni due anni, a fare un giro nel museo.
Annoto mentalmente le varie novità,
ma la vecchia guardia è sempre sulla breccia.
Soltanto la penultima volta,
cercavo quell’orango e lui non c’era.
L’avevano spostato più avanti di due sale,
in mezzo a una vetrina molto grande.
(L’hanno spostato avanti, ma solo di due sale:
adesso ha una vetrina più grande.)
Andavo con questo mio nonno, ogni domenica, al Museo di Storia Naturale, per confrontarmi con un grande orango del Borneo, impagliato e pendente da un alberello, che mi faceva molta paura. Avrò avuto tre anni.
Era anche il mio primo contatto con la dimensione dell’esotico e dell’avventuroso; quella che in seguito avrebbe trovato la sua iconografia televisiva: Jim della giungla, e soprattutto I lancieri del Bengala, la serie ispirata al film del 1935 col giovane Gary Cooper.
I lancieri portavano lo stesso casco coloniale che il nonno aveva conservato tornando dalla guerra di Libia, e che oggi è rimasto a me.
Non riesco neanche a pensare a lui senza qualcosa in testa: nelle foto lo trovo con cappelli sempre diversi, a seconda che giochi a bocce con i due cognati, o che posi sulla neve indossando un cappotto dall’aspetto metallico.
Tornando all’orango, non dobbiamo fermarci alla canzone che a lui si ispira, ma seguire la vicenda ben più complessa che racconto, col regista Marco Kuveiller, nel corto L’Orango dei Doria (2004). Lì compare anche mia figlia Melissa, allora quattrenne, ingaggiata perché interpretasse in qualche modo la parte di me piccolo.
Ogni tanto torno con lei nel Museo, a fare un giro, così.